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Creatività: talento o duro lavoro?

Quando si parla di creatività il rischio di cadere in considerazioni banali e fin troppo già sentite è molto alto. Viviamo in un’era in cui le testimonianze di piccoli e grandi geni, che con un’intuizione più che mai inaspettata stravolgono capisaldi dell’informatica, della scienza, dell’arte, non mancano. E se da una parte caricano di energia il lettore, portato ad accrescere la propria fiducia nel progresso e nell’innovazione, dall’altro rendono le distanze tra il “genio” e il lettore stesso un canyon profondissimo.

Capita a tutti, almeno una volta al giorno. Si apprende di un’idea creativa e il primo pensiero è: “Si va beh, ma questi sono geni, ben lontani dalla nostra realtà”.

È inevitabile. Quando il cervello concretizza il concetto di creatività, subito compaiono nel nostri “occhi mentali” le immagini di Mozart, di Picasso, di Leonardo Da Vinci o, senza scomodare geni del passato, di registi, ballerini, fotografi, ricercatori che stanno lasciando un bel segno profondo grazie alla loro, per l’appunto, creatività.

Vi siete mai imbattuti nelle foto dei prigionieri delle carceri russe in epoca sovietica?
I loro corpi erano una vera e propria tela sulla quale era raccontata, attraverso tatuaggi dalla bellezza stilistica indiscussa, la storia criminale del proprietario del corpo stesso. Secondo un codice ben definito, ogni tatuaggio stava a rappresentare un crimine commesso, l’appartenenza a un movimento politico, la ribellione al regime. Tutti tatuaggi che venivano realizzati all’interno delle carceri stesse.
Come? Il più delle volte con “aghi” di recupero e vecchi rasoi elettrici, per inchiostro gomma bruciata o fuliggine mischiate a urina. Al di là delle considerazioni igienico-sanitarie, è indiscutibile il fatto che, senza particolari conoscenze tecniche e pittoriche e con strumentazioni di fortuna, i prigionieri abbiano creato delle vere e proprie opere d’arte. Non è, forse, questa creatività?

Molti di voi avranno sentito parlare dell’incredibile storia di Aron Ralston, ingegnere meccanico coinvolto nel 2003 in un tremendo incidente durante una sessione di trekking solitario, in seguito al quale è rimasto intrappolato per 5 giorni tra le rocce. L’unico modo per salvarsi la vita, ormai esausto e stremato, è stato quello di amputarsi il braccio incastrato con l’ausilio di un piccolo coltello e della roccia stessa nella quale era in trappola. Come non considerarla una persona coraggiosa, temeraria, attaccata alla vita e… creativa?

Per creatività, infatti, si intende non soltanto quel lampo di genio che nasce da un allineamento ancestrale dei pianeti, ma anche e soprattutto quell’attitudine di farsi domande e ricercare nuove risposte, individuare questioni o problemi e scoprirne le relative soluzioni. E non per forza in termini di novità assoluta rispetto a quanto fatto in passato, ma rimescolando in modo innovativo strumenti e soluzioni già esistenti. Non è un caso, dunque, che il Word Economic Forum svoltosi al termine del 2017 abbia identificato tra le prime 3 competenze indispensabili nel mondo del lavoro da qui al 2020 proprio la creatività (insieme a complex problem solving e critical thinking).

Torniamo, però, al punto. Quest’attitudine, che ci contraddistingue come essere umani, è davvero “onnidistribuita” o resta appannaggio di poche menti elevate?

Nella grande maggioranza dei casi dietro un’apparente mancanza di creatività, idee e stimoli si cela l’incapacità di guardare gli “oggetti” che ci circondano in modo diverso rispetto a quanto fatto fino a questo momento, in poche parole di accogliere a mente aperta il cambiamento. La soluzione? Allenarsi!

Nel 2012 lo psicologo cognitivo Anthony McCaffrey ha pubblicato una ricerca che si muove esattamente in questa direzione.

Per comprovare quanto riportato nella ricerca, McCaffrey ha messo a confronto la capacità risolutiva di problemi di ordine pratico da parte di un gruppo di 14 studenti preparatissimi sugli oggetti a disposizione per risolverli, rispetto a quella di un gruppo di 14 volontari inesperti. Inutile dire che i risultati del primo gruppo hanno staccato di molto quelli del secondo. Un gruppo di geni? No, semplicemente persone perfettamente a conoscenza degli oggetti a disposizione, in grado di superare il blocco iniziale che le avrebbe portate a utilizzarli nel modo ordinario, non raggiungendo l’obiettivo. E questo grazie a un allenamento mentale costante.

Tornando, quindi, alla nostra realtà, nella quale la creatività è l’ingrediente unico per il raggiungimento degli obiettivi, è più che mai evidente che, per dirla con le parole dell’economista e psicologo Herbert Simon “per sviluppare un'idea creativa ci vogliono circa 10 anni di intensa applicazione”.

Con questa consapevolezza, quando ci troviamo di fronte a un’idea creativa dovremmo ammirarla non fine a se stessa, ma stimando e rispettando l’allenamento mentale che ha portato alla sua generazione. Allo stesso modo, quando si analizza il lavoro di un’agenzia di comunicazione, si dovrebbe guardare lo storico, la propensione al cambiamento e all’innovazione, la capacità di sfruttare le circostanze mutevoli a proprio vantaggio. Tutti indizi che celano una propensione alla creatività a servizio dell’azienda.

Noi ne siamo convinti: si tratta di scendere in campo e iniziare l’allenamento, invece che aspettare che quel tiro da 3 all’ultimo secondo si materializzi per il solito, quanto utopistico, allineamento planetario.

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